Nome: Giacomo;
Cognome: Ceconi;
Nato: a Pielungo il 29 settembre del 1833;
Deceduto: a Udine il 18 luglio del 1910;
Professione: muratore, impresario edile, benefattore;
Segni particolari: barba e baffi curatissimi, di straordinaria robustezza fisica, instancabile, vivace nella mente come nel fisico, un po’ ruvido nella scorza, generoso nell’animo.
Sono Ceconi, Giacomo Ceconi. Non fate confusione: una ci sola e non confondetemi con quel letterato malaticcio che fu Teobaldo Ciconi. Dite che sono pignolo? La precisione in certe cose è tutto: pochi millimetri possono sembrare un nulla, ma prima o poi quel nulla vale un’infinità. E visto che parliamo di precisione ricordatevi che sono Conte. Conte Giacomo Ceconi. Contea comprata? In un certo senso sì, ma comunque meritata. Vorrei vedere voi nascere a Pielungo e davanti a sé null’altro che un destino da pastore in val d’Arzino. Per fortuna c’era mia madre: a 18 anni mi ha dato il permesso di andare a Trieste a fare il manovale. Lavoravo di giorno e la sera andavo a scuola per capirci qualcosa di edilizia, di piloni, pilastri, edifici, ponti e ogni altra cosa potesse essere utile al genere umano e alle sue attività. Io non so che cosa facevate voi a vent’anni, ma io a quell’età ai fratelli Martina di Chiusaforte, ho trovato la soluzione a un problema tecnico che bloccava il loro cantiere. Basta manovale: mi passano alla qualifica di muratore e convincono a mia mamma a pagare l’esonero per i sette anni di servizio militare che mi sarebbero toccati sotto agli Asburgo. Dovevo in qualche modo di ripagarla. È così che sono diventato Giacomo Ceconi, uno dei più grandi costruttori di infrastrutture del mondo occidentale. Presuntuoso? Andatevi a vedere quello che ho costruito e poi tornate qua a dirmelo in faccia, che sono un presuntuoso. A cominciare dal viadotto ferroviario di Borovinca, sulla linea Trieste, Lubiana, Vienna; e poi un sacco di stazioni, il raccordo che collega Pontebba a Tarvisio, il tronco ferroviario di allacciamento della Baviera al confine con la Boemia. E se non vi basta siamo stati io e i miei uomini a costruire la linea Tàbor-Hornì Cerekev con il viadotto di Cervena, alto 67 metri e realizzato senza ausilio di armature. Anni meravigliosi, sfide sempre vinte. E tutto attorno l’invidia delle imprese asburgiche. Che ridere! Pensavano di essere il centro del mondo e poi arriva uno sconosciuto dalla val d’Arzino a insegnargli come si fa. D’accordo, avete ragione. Ho ceduto. Nel 1879 ho preso la cittadinanza austriaca. Nessun tradimento. Era l’unico modo per ottenere l’appalto per il traforo dell’Arlberg. Non ero più un immigrato italico, ma un cittadino austriaco alla cui impresa si poteva affidare l’appalto per un’opera grandiosa da far paura: un traforo di 10 chilometri per collegare la Svizzera con il Tirolo. Avete idea? L’invidia dei progettisti austriaci è alle stelle. Mi fanno un contratto capestro: consegna entro il 15 agosto 1885 e 800 fiorini di penale per ogni giorno di ritardo. Rilancio: allora 800 fiorini di compenso per ogni giorno di anticipo, più un bonus se il punto d’incontro dei due tronconi sarà inferiore a mezzo metro. Loro ridono e accettano. Divido l’appalto con i fratelli Lapp: loro a occidente noi a oriente. Ogni giorno il cantiere lo apro io, gli operai li recluto io, a stare lì con loro ci resto ogni santo giorno io. Sapete cosa hanno detto alla fine le mie squadre? Tre ains di lavour cun lui a no si è maciada nncia ‘na sola ongula. D’accordo, qualche incidente c’è stato, ma nessun morto e tunnel consegnato il 3 settembre del 1884. Quasi un anno di anticipo, 800 fiorini per ogni giorno guadagnato. E il titolo di Conte di Montececon. Contea meritata, non vi pare? Ancora un tunnel, il traforo del Wocheiner e poi basta Asburgo. Sono Italiano, che diamine e alla mia val d’Arzino manca una strada che, come scriveranno, “apra le porte all’umano consorzio”. La faccio e la chiamo Strada Regina Margherita. Bella donna la regina. Belle anche tutte le mie mogli. Ne ho avute quattro e tre mi è toccato seppellirle. E comunque alla Regina è piaciuta l’idea e ha subito convertito il titolo di conte asburgico in quello italiano. Un nobile deve saper essere generoso: mi hanno anche eletto sindaco e io ho costruito la scuola di disegno, gli acquedotti di Anduins, Celante e Pielungo, il Municipio e la chiesa parrocchiale di Pielungo, la Cooperativa di consumo e persino un poligono di tiro. E poi dato che il conferimento del titolo di conte richiedeva il possesso di un castello, me lo sono fatto da me. Che si sappia: tutto questo, strade, ponti, trafori, ferrovie che porteranno gli uomini ben oltre le soglie del terzo millennio, le ha costruite Ceconi, una ci sola. Conte Giacomo Ceconi. Ah, dimenticavo: all’Arlberg, quando i due tronconi si incontrarono dopo 10 chilometri di trafori, la differenza era di 43 millimetri. Un nulla. Ma per me era un nulla che valeva l’infinità.
Vista la condizione franosa e il misero squallore in cui versa gran parte delle zone della valle dell’Arzino, desidero che si proceda a una decisa azione di rimboschimento, ovvero alla messa a dimora di circa due milione di piante, essenze, arbusti di ogni tipo e di ogni specie nella misura in cui esse possano risultare adatte al clima e al terreno su cui dovranno vivere e espandersi. Tale opera di rimboschimento avvenga nei terreni di mia proprietà circostanti l’abitato di Pielungo. E che a questa operazione di impianto si proceda poi anche a quelle successiva di sostituzione e manutenzione dei boschi stessi. Anche al termine della vita mia. Anzi a prolungamento di essa.
Dalle volontà del Conte Giacomo Ceconi di Montececon
Suggerimento di lettura
L. D’ANDREA – A. VIGEVANI, Giacomo Ceconi un impresario friulano, Udine, Filacorda, 1994