Davanti alla lavagna è una rubrica scritta da Paolo Patui per il Messaggero Veneto, che l’ha ospitata per due anni, ogni martedì, fino al giugno 2013. Nei diversi articoli vengono affrontati in vario modo argomenti, temi e problematiche relativi al mondo scolastico. La quasi totalità degli articoli sono stati in seguito raccolti nel volume La scuola siamo noi – Diario di un insegnante di provincia. Con stile spesso ironico e pungente in virtù di una scrittura leggera nella sua originalità, l’autore offre un ventaglio variegato di osservazioni che bersagliano ferocemente luoghi comuni e presunzioni di modernismo, ribadendo che, ancora una volta e ancora di più in questi tempi, la scuola delle competenze non può fare a meno né degli aspetti umani e affettivi, né di quelli di una gioiosa e libera creatività dell’insegnante.
Denunciando paradossi e incongruenze, in questi suoi corsivi cosparsi spesso da una sorta di eresia scolastica, l’autore, prova a ridefinire la scuola come luogo educativo, come incontro di anime, come spazio in cui insegnando si impara e imparando si insegna.
Studenti già in piazza (ma non dalle nostre parti)
Dal Messaggero Veneto del 09/10/2012
Quando gli autunni erano autunni e le foglie cadevano su selciati che già sapevano di freddo e castagne, a trasformare quelle giornate in un “autunno caldo” c’erano proteste al calor bianco, battaglie a suon di slogan vibranti e cordoni di polizia in assetto di guerra. Oggi che l’autunno è già climaticamente caldo, non c’è bisogno di alzare le temperature. Così nella nostra regione gli studenti hanno atteso ordinatamente il suono della campanella per entrare in aula e riprendere il corso delle lezioni su banchi vecchi d’anni e di graffiti. Non così nel resto dell’Italia: da Torino fino a Palermo il primo sciopero del nuovo anno scolastico è andato in onda con immagini a volte persino bellicose. Allo squillo di un tweet la generazione P(recari) sì è passata ordini e istruzioni, parole d‘ordine e resoconti su mosse e manovre del fronte studentesco nei confronti di quello poliziesco. Qui da noi non pare sia arrivato alcun tweet: cinguettii zero, post su Facebook nemmeno. Si sentiva solo la voce dei prof. che salmodiavano lezioni d’inglese intrecciate a quelle di matematica, solo di tanto in tanto interrotte dal fischio perentorio di un prof. di educazione fisica. Questa divergenza rispetto a ciò che è accaduto, accade e accadrà nel resto delle scuole italiche si presta a numerosi motivi di riflessione e a valutazioni persino opposte; da un lato infatti pesa su uno dei due piatti della bilancia il pensiero che forse e per davvero motivi per protestare non ce n’è. La nostra regione di certo può vantare, soprattutto a confronto con il resto dell’istituzione scolastica nazionale, una scuola di eccellenza sia dal punto di vista edilizio, che didattico, ma anche dal punto di vista della modernità delle strumentazioni. Certo non tutto è perfetto e tutto è perfettibile, però forse davvero i nostri allievi non hanno motivi di protesta e questo in fondo fa loro onore, perché se così fosse si sarebbero dimostrati capaci di resistere alla lusinga nei confronti di una imitazione fine a se stessa, che l’indizione di uno sciopero può addurre. Però è anche vero che a vederli entrare ogni giorno in classe non è che sprizzino gioia né da pori né da piercing; d’accordo le micce sono accese e a volte basta una scintilla per far loro brillare gli occhi, ma se andate a intervistarli non vi diranno di certo, nella grande maggioranza dei casi, che la scuola è un’esperienza meravigliosa. E allora? Se in loro striscia questa latente insoddisfazione, perché questo placido procedere, questa calma al limite fra serenità e indifferenza? Che appartenga anche a loro quel DNA che fa del Friuli una terra di sopportazione a ogni costo, di accettazione supina degli eventi e dei comandi? Oppure e peggio ancora la crasi, la frattura fra questa terra e il resto del mondo è rimasta tale e quale rispetto a quella di tanti anni fa, nonostante la valanga accelerata delle possibili comunicazioni simultanee? A Milano i “Book bloc” scandiscono slogan con veemente convinzione, a Roma un ragazzino di 15 anni finisce a denti rotti, a Firenze si marcia sotto cartelli che annunciano “Il futuro è sfiorito”, o “Vi sMONTIamo tutto!”, mentre qui vi è un sopore rassegnato, anche nei confronti di quella “casta” contro cui ogni corteo studentesco e senza alcun riferimento ideologico, ha urlato solo pochi giorni fa. Sinceramente è difficile dare ancora peso alle fiammate dell’autunno caldo che non occorre più scaldare: in genere a Natale è tutto finito e la Befana può incam(m)inarsi in notti tranquille. Però dinanzi all’agitarsi di questa generazione P, dinanzi a certi suoi slogan dai sapori più pubblicitari, che politici (Banche alla frutta? La fregatura di prima mano!) si avverte una angoscia sul futuro che forse questi ragazzi non hanno lucidamente chiara in mente, ma che percepiscono, che sentono muoversi dentro di loro. In Friuli le scuole saranno pure migliori, ma il futuro è oscuro pure qui. E almeno un segno – anche diverso dalla solita manifestazione – per dire: “che sarà di noi?” avrebbe dato senso a una serenità che altrimenti sfiora l’incoscienza.
Di Paolo Patui
E Silvia Sorrise
Dal Messaggero Veneto del 04/12/2012
Qualcuno sa dirmi come fanno? Sono entrato pochi giorni fa in un locale di Udine che Silvia gestisce con suo marito e sono stato investito da un sorriso così colorato, così squarciato dalla luce da farmi sentir in colpa per la mia aria imbronciata di un pomeriggio imbronciato in una Udine imbronciata. Ma Silvia non ha sempre sorriso così. Era in prima superiore e si è trovata con un padre andato via, lontano senza dire né perché né per come. Andato. Per non tornare. Mentre parlo con lei, felice della vita, del lavoro, dei figli, penso a altre facce di allievi che parevano imperturbabili nello sguardo, asfittiche nei sentimenti, mentre invece avevano il cuore spaccato, il respiro reciso. Anche C., a scuola da poche settimane, è rimasta senza padre. Ma in questo caso non se ne era solo andato via lontano, se ne era andato per sempre; poco dopo Natale e pochi giorni dopo una serata di inusuale tenerezza ha preso la propria vita e l’ha buttata via. Per sempre. E penso anche a B., che mentre era lì a scuola ad ascoltare una idiota lezione sulle mirabolanti imprese di Alessandro Magno, non sapeva che sua mamma si appendeva a una trave del soffitto rimanendo a dondolare in attesa del ritorno della figlia. E allora torno a chiedermi: ma come fanno? Come fanno questi ragazzi a mettersi nello zaino di ogni mattina il peso mica dei libri o dell’eBook, semmai quello della vita; il peso di quello che gli è capitato addosso, che senza colpe, senza motivo, riesce a farli rimanere senza. E soprattutto come fanno a non parlarne di quell’assenza definitiva, di quel marinare mica la scuola per un giorno, ma la vita per sempre. Come fanno a far finta di nulla, a guadare la lavagna come se ciò che ci scriviamo sopra possa interessarli in qualche modo; a chiedere “posso uscire?”, “posso andare a fare una fotocopia?”, con lo stesso tono usato da un compagno ignaro dei dolori della vita. Lo fanno, d’accordo, perché c’è un fantasma da non svegliare, una ferita da non riaprire, un dolore da rimuovere. E allora entrano in classe e fanno finta che tutto vada bene. Si può ben dire che una volta rimosse dalla coscienza tragedie e lutti, dolori e pene, non c’è voglia di farli rinascere; ditemi pure che questo bisogno di stare lontani dagli affanni è normale istinto di sopravvivenza. Io non so se sia normale o meno, non so se quella forza di far finta di nulla te la trovi dentro solo quando ne hai bisogno; so che continuo a chiedermi “come fanno?”, e più me lo chiedo, più mi chiedo come facciamo noi; noi insegnati a non capire e non vedere. A non sapere, a continuare a chiedere la data del suicidio di Cleopatra, chi sia mai l’autore del romanzo Senza Famiglia, quante incognite abbia un’equazione di secondo grado, quanti atomi di carbonio abbia la formula del glucosio, e a non chiedere quasi mai “come stai?” Che è una domanda stupida, d’accordo, però solo il fatto di farla vuol dire che c’è un compagno di viaggio in più a fianco a te, che lo zaino è più leggero perché un tizio con quella domanda ti ha tolto da dentro qualche grammo di infelicità e di solitudine. Ti ha limato un po’ di fatica e di quel futuro che ti schiaccia i giorni e le ore come un macigno, se sei come Andrea dentro e fuori a un ospedale per una leucemia, che poi se n’è andata via d’accordo, ma quando era in prima superiore gli occhi suoi ceravano solo certezze e fuggivano paure nascoste e non dette e forse nemmeno considerate. E mi fermo, che l’appello delle assenze nella vita degli studenti sarebbe lungo e interminabile. Ogni tanto provo a parlarne con i colleghi, ma sempre più spesso mi sento dire che non è nostro compito considerare come stanno gli studenti, ma quanto sanno. Come se le due cose fossero scindibili al pari di una molecola di amido. Ritorno a guardare il sorriso di Silvia, la sua gioia di essere al mondo e mi ricordo di averle chiesto una volta “come stai?” e forse un po’ di quel suo lancinante sorriso è anche mio. E mi scappa da sorridere e mi sembra che il pomeriggio sia meno imbronciato e che tutta Udine per un attimo sorrida un po’.
Di Paolo Patui